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4. La scoperta del dialetto

Intorno agli anni Sessanta Loi inizia a scrivere in poesia. Lo fa usando la lingua italiana, senza però esserne soddisfatto. In futuro, ricordando questi primi tentativi, affermerà che i versi da lui creati a quel tempo sembravano inefficaci imitazioni di altri poeti.

Nell’estate del 1967 la lettura dei Sonetti in romanesco di Giuseppe Gioacchino Belli gli fece comprendere la grande potenzialità narrativa offerta dal dialetto e dal romanzo in versi, tanto che dirà: «Il Belli fu come un sasso, anzi un macigno, gettato nello stagno».

Da questo momento la scrittura di Loi prese corpo e trovò nel dialetto milanese il canale che riusciva a veicolare i suoni e le disarmonie della realtà, dando forma a un dettato lirico che il poeta sentiva suo: «Sentivo l’emozione della cosa e insieme del suono della parola, e questo mi conduceva ad altri suoni ed emozioni – era il filo sonoro a condurmi verso la forma di ciò che intendevo dire. Non si trattava più di “costruire una poesia” ma piuttosto di seguire un ritmo dettato dai suoni e dalle emozioni, dall’esperienza di cui volevo parlare e dal modo in cui essa si manifestava autonomamente».

Nell’estate del 1967 Loi scrisse ben 119 poesie.